TOMMY E QUADROPHENIA - Dal Blues alle Rock Opera - prima parte
America, Sud- Est. Un fiume che scorre, un accento marcato, la vitalità di New Orleans e il fascino del Missippi sulle cui rive chiudendo gli occhi per un attimo sembra ancora di vedere Huckleberry Finn preparare la canoa con il suo amico Jim.. Una estenuante traversata in mare durata settimane, quel rollio delle onde mentre la notte insegue lentamente il giorno e un gruppo di donne, uomini e bambini africani stipati in un angolo come merce di scambio in attesa di varcare la soglia di un nuovo mondo. La terra promessa.. Anche se l’unica terra che avrebbero visto e l’unica promessa che sarebbe stata loro mantenuta è quella dei campi di cotone dove furono condotti a lavorare e per cui sarebbero stati ridotti in schiavitù non appena calpestato il suolo di quell’America di fine ‘700.
Nulla tra le mani, ma dentro, il più grande bagaglio che una popolazione può portare con sé, fatto di tradizioni, musica e cultura. Ma le giornate nei campi sono lunghe, il lavoro sotto quel sole, estenuante, e la nostalgia verso la propria casa, sempre più dilaniante. Ed ecco che la sofferenza diventa lamento, il lamento diventa un suono, e il suono diventa un canto, un verso spontaneo e sincero intonato da uno schiavo che invoca una richiesta di aiuto, lancia un grido di attenzione, urla, cerca, afferma con la sua “call” la sua identità.. E dopo un attimo, qualche metro più avanti reso invisibile da una piantagione, con il suo “response” un altro schiavo rompe il silenzio, risponde a quella richiesta e si associa a quel grido, nel tentativo di rivendicare la sua esistenza e alleviare una sofferenza.
Basteranno solo pochi anni, e nel 1910 con la parola blues si indicherà non solo uno stato d’animo preciso, ma anche un genere musicale, e il rito del call and response diventerà un’abitudine che nel tempo si trasformerà in stile, quando i bluesmen professionisti adotteranno questo modo di cantare facendo seguire ai versi in voce, una “risposta” in musica con la chitarra. Due anni dopo W.C. Handy pubblica Memphis blues, dal Vaudeville emerge Mamie Smith con la sua crazy blues e dagli anni ’30 in poi Robert Johnson e altri musicisti del Delta del Missippi intraprendono lunghe camminate per proseguire quel viaggio iniziato su una nave merci quasi un secolo prima, portando questa volta invece la loro musica e i loro versi in giro per gli stati del sud. Sulla costa orientale il genere è folk, e mentre Count Basie a Kansas city introdurrà il blues nelle grandi orchestre jazz, a New York si farà sentire Billy Hollyday.
Gli anni ’40 si svegliano al ritmo del jump blues con gli shouter, i cantanti e gli honker, i sassofonisti che riprendono lo stile del “call and response” degli albori, mentre sul finire del decennio nascerà il rythm and blues che porterà gli strumentisti in secondo piano rispetto al cantante. Siamo lontani dal vaudeville da cui emerse il “bianco” Al Jolson interprete nel ’27 di quel cantante di Jazz, e dalla presa in giro che i bianchi perpetravano nei confronti dei neri dipingendosi il volto con la pece nei Minstrel Shows, mentre loro, i veri protagonisti, rimanevano fuori. E dal walkaround, che chiudeva ogni rappresentazione in una sorta di girotondo.
Il musical scopre e perfeziona se stesso, dai primi “All talking, all singing” e “The Hollywood revue” a “42 second street” con brani e coreografie passate alla storia; nascono le splendide interpretazioni di Fred Astaire e Ginger Rogers, intense e garbate, e quelle scintillanti e plateali delle Ziegfield follies e di Andy Hardy. Due sono i coreografi che si sfidano su questi fronti: Hermes Pan e Bursby Berkely. “La sua cinepresa si spostava ovunque... in alto, sotto piani trasparenti, sott’acqua”, su brani di Cole Porter, Irvin Berlin, e naturalmente Gershwin, che nel 1924 con la sua Rapsodia in blue commissionatagli da Paul Whiteman aveva inaugurato la musica Americana, presentando ufficialmente il jazz alla musica sinfonica; sino ad arrivare ad un capolavoro assoluto: “Cantando sotto la pioggia”, Gene Kelly - Stanley Donen, 1954. In questo stesso anno B.B. King introduce il vibrato perpendicolare alla corda e la nota tirata; Muddy Waters; John Lee Hooker; T. Bone Walzer e Howlin Wolf: sarà un proliferare continuo di suoni e stati d’animo. Il cinema intrattiene e delizia il pubblico con “Sette spose per sette fratelli”, una favola, una storia fuori dal tempo quasi, la cui colonna sonora vince un oscar mentre in quello stesso momento “rock around the clock” diventa la prima canzone del genere ad essere inserita in un film. Elvis Presley incide Blu Moon of Kentucky per diventare leggenda due anni dopo con Heartbrake Hotel incantando 54 milioni di spettatori che lo seguono all’Ed Sullivan show, portandolo ad essere il protagonista indiscusso del “fanatismo musicale” inaugurato dalle fan di Frank Sinatra nel 1944 quando in venticinquemila occuparono il Paramount Theatre dalle tre del mattino per ascoltare e vedere il loro idolo dando origine alla “sinatrance”.
Dopo una serie di successi, Count Basie riorganizza la sua orchestra e sempre nel ‘54 inizia il suo primo tour mondiale. Le orchestre da ballo spopolano; in una di queste, tra i suoi musicisti c’è n’è uno in particolare il cui nome è Cliff Townshed, padre di Pete futuro componente degli Who.
Pete Townshend nasce nel 1945. Cresce ascoltando la musica di suo padre ma anche quella di Basie e di Ellington e le interpretazioni di Sara Vaughan, Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, non pensando neanche lontanamente di poter eguagliare mai la loro grandezza.
Si conobbero a scuola nel 1959 i futuri Who, originariamente “Detours” e nel 1962 suonavano in cinque: Doug Sandom alla batteria, Pete Townshed alla chitarra ritmica, Colin Dawson voce, John Entwistle al basso e Roger Daultrey, fondatore del gruppo, alla chitarra. Nel 1963 Daltrey licenzia il cantante e assume le redini del gruppo come frontman. L’anno seguente sarà Doug Sandom ad essere licenziato. Al suo posto arriverà Keih Moon.
Intervistati a distanza di tempo, Townshed, Daltrey ed Entwistle sottolineeranno come la loro vita in quei tardi anni ’40 inizio ‘50, e tutti i loro ricordi, fossero in bianco e nero. Neanche una macchina in giro per le strade, ma solo bombardamenti e cibo razionato. La condizione sociale della classe operaia Inglese dopo la guerra era simile a quella dei neri Americani e i giovani che vivevano questo stato d’animo ascoltavano il blues riconoscendosi nel loro. Ricorda Daltrey: “ci identificavamo con il blues americano e quegli artisti neri, cominciammo ad ascoltarli e li trovammo fantastici; iniziammo a suonare blues, io suonavo l’armonica”
Siamo negli anni ’60, il musical si chiama WEST SIDE STORY. Trasposizione dell’opera di Shakespeare, quelle dei Montecchi e dei Capuleti diventano le vicende dei Jets e degli Shark, rappresentando la contestazione giovanile. L’ anno seguente, Bob Dylan registra il suo primo album, dando a quella stessa contestazione giovanile toni e luoghi differenti.
Tre anni dopo Julie Andrews, al secolo MARY POPPINS, spopolerà sul grande schermo percorrendo il corrimano delle scale intonando Supercalifragilistichespiralidoso e Cam caminin, mentre a distanza di due anni le note delicate e meravigliose di The sound of silence di Simon e Gurfunkel percorreranno i Cieli di tutto il mondo, accompagnando il boom dell’acid rock e della psichedelìa… Nata dalla Beat Generation, e rappresentata da musicisti come Grateful Dead, Jefferson Airplane, Janis Joplin, la psichedelica è come tutte le tendenze musicali, anche un “movimento”; ha una componente anti – militarista e pacifista che si manifesterà attraverso le occupazioni e con buon aiuto di acidi sintetici come le pasticche di lsd. Sviluppatasi in America conquisterà la gran Bretagna con i Cream, i Pink Floyd e i Beatles di Strawberry Fields, ponendo l’accento più sulla musica che non la politica.
Alcuni musicisti Inglesi spostano il loro interesse musicale e lavorano sulle loro chitarre dando vita a nuovi suoni e nuovi stili, il rock blues, l’hard rock e l’heavy metal. I loro nomi sono Eric Clapton, Rolling Stones e Jimy Hendrix.
Siamo ancora nel ‘64, nelle sale Americane esce My Fair Lady, mentre oltre oceano, a Brighton on sea cominciano le risse tra Mod e Rockers. “Eravamo i primi adolescenti dopo la guerra e volevamo solo sfogarci e divertirci…” è il pensiero del batterista degli Small Faces, Kenney Jones, che prenderà il posto di Moonie nel gruppo in seguito alla sua morte avvenuta nel 1978. “Noi eravamo Mods.. Ci chiamavamo così perché eravamo Modernisti. Era un comportamento ribelle, sprezzante; si diceva usciamo dal sistema di classe” è il pensiero di molti.
Quella dei Modernisti in realtà, è una cultura dettata dagli adolescenti Britannici impiegati nella ricostruzione economica dell’Inghilterra post seconda guerra mondiale. Adolescenti che in quanto tali dovevano rispettare regole e coprifuoco imposti loro dai genitori, ma abbastanza adulti per lavorare e quindi capaci di un’indipendenza economica costante, che gli permetteva di comprare abiti raffinati e di spendere in continue migliorìe per il loro mezzo di trasporto – simbolo: lo scooter che arricchivano continuamente con moltissimi accessori.
I primi Mods erano molto eleganti: giacche corte italiane, pantaloni stretti, scarpe a punta, abiti di pelle, di sartoria, un filo di mascara e un taglio di capelli molto accurato.
A questi ribelli della fine degli anni ’50 si contrapporranno i Rockers.
Pete Meaden, famoso pubblicista del momento, intuita l’importanza di questa tendenza e convinto che quella Mods fosse la nuova e unica filosofia di vita, disse loro di tagliarsi i capelli e li accompagnò per scegliere il loro nuovo look in quel di Carnaby street, trasformandoli all’improvviso in una band Mod. Da questa cultura nascerà Quadrophenia.
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